Molecole organiche su Marte

facciamo chiarezza su una scoperta che ha avuto molta eco mediatica

Perseverance ha raccolto due campioni di nucleo da Wildcat Ridge per ispezionare la roccia con il suo strumento Sherloc. Crediti: NASA, JPL-Caltech, ASU, MSSS

È  fresca di qualche giorno la notizia che il rover Perseverance della Nasa ha rilevato su Marte alte concentrazioni di molecole organiche nei campioni analizzati. Questo è un potenziale segnale di presenza di vita, ma potrebbe anche non esserlo.

In questi casi bisogna andare cauti, perché la scienza è fatta sì da idee che lambiscono le nuvole, ma anche da solide radici che ancorano alla realtà. La cosa promettente alla base di questa scoperta è che sì, è vero che tracce di materia organica era già stata trovata sul Pianeta rosso in precedenza, ma questa nuova scoperta proviene da un’area in cui sedimenti e sali sono stati depositati in un lago, che sono, sulla Terra, le condizioni in cui la vita potrebbe essere sorta.

Però le molecole organiche, che sono composti costituiti principalmente da carbonio e che di solito includono idrogeno e ossigeno e, a volte, anche altri elementi, non sono sempre create da processi biologici. Vero è che, per tagliare la testa al toro, sono necessarie ulteriori analisi che potranno essere fatte solo quando la missione Mars Sample Return, una collaborazione tra la Nasa e l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) riporterà le rocce sulla Terra, nel 2033.

Le rocce analizzate da Percy, come viene chiamato dai fan, sono composte da particelle di varie dimensioni che si sono depositate nell’ambiente allora acquoso di Marte. Percy ha abraso parte della sua superficie di una roccia chiamata Wildcat Ridge, e ha analizzato il contenuto con uno strumento chiamato Sherloc che utilizza la luce ultravioletta. Al suo interno erano nascoste delle molecole organiche chiamate aromatiche, che svolgono un ruolo chiave nella biochimica degli esseri viventi.

Percy ha attualmente 12 campioni di roccia a bordo, tra cui i pezzi di Wildcat Ridge e campioni di un’altra roccia sedimentaria chiamata Skinner Ridge. Il rover ha anche raccolto campioni di rocce ignee all’inizio della missione che indicano l’impatto che l’azione dei vulcani ha avuto nel cratere molto tempo fa.

Scavando tra le rocce sedimentarie

Le rocce sedimentarie  si formano grazie all’erosione, agli agenti atmosferici, la dissoluzione, le precipitazioni e la litificazione. L’erosione e gli agenti atmosferici avvengono ad opera del vento e della pioggia, che lentamente sgretolano le grandi rocce in pezzi più piccoli, fino a farli diventare sedimenti, come sabbia o fango. Poi, attraverso processi chimici, come ad esempio, l’acqua leggermente acida, la pietra viene lentamente consumata. La precipitazione e la litificazione poi, sono i processi che operano la magia.

In questa fase, le rocce e i minerali precipitano dall’acqua, ad esempio, quando un lago si prosciuga nel corso di molte migliaia di anni, lascia dietro di sé depositi minerali. A questo punto, la litificazione compatta l’argilla, la sabbia e gli altri sedimenti sul fondo dell’oceano o di altri corpi idrici grazie al peso del materiale sovrastante.

Le rocce sedimentarie possono essere organizzate in due categorie. La prima è la roccia detritica, che deriva dall’erosione e dall’accumulo di frammenti di roccia, sedimenti o altri materiali, classificati in totale come detriti o detriti. L’altra è la roccia chimica, prodotta dalla dissoluzione e dalla precipitazione dei minerali.

E qui entra in gioco il focus di questa scoperta: i detriti possono essere organici o inorganici. Le rocce detritiche organiche si formano quando parti di piante e animali decadono nel terreno, lasciando dietro di sé materiale biologico che viene compresso e diventa roccia. Anche il comune carbone è una roccia sedimentaria, che si è formata nel corso di milioni di anni.

Secondo Nathalie Cabrol, un’astrobiologa francese americana specializzata in scienze planetarie del SETI Institute, non solo la vita potrebbe essere ancora presente su Marte oggi, ma potrebbe anche essere molto più diffusa e accessibile di quanto si credesse in precedenza.

Marte è infatti il pianeta del Sistema solare che più ha segnato la storia dell’immaginario collettivo. Lui, il dio della guerra è stato teatro delle più colorate fantasie fantascientifiche. Marte, sebbene sia il pianeta più simile alla Terra, ha temperature che variano fra tra −120°C e −14°C, un’atmosfera molto rarefatta e una superficie con formazioni vulcaniche, valli, calotte polari e deserti sabbiosi.

Ora viene finalmente considerata l’ipotesi dell’abitabilità microbica su Marte. Il Pianeta rosso è diventato un ambiente estremo molto presto, dopo la transizione noachiana/hesperiana, avvenuta 3,7-3,5 miliardi di anni fa. Ma la sua conformazione geologica suggerisce la presenza passata di un’idrosfera, ormai ricordo di epoche lontane.  

Negli ambienti estremi, sebbene l’acqua sia una condizione essenziale, non è la sola a servire alla vita. Ciò che conta di più è come fattori ambientali estremi interagiscono tra loro. Per esempio esiste un sottile equilibrio fra l’atmosfera sottile, le radiazioni UV, la salinità, l’aridità, le fluttuazioni di temperatura e molti altri fattori che possono decretare se sul pianeta ci possa essere vita oppure morte. Nel deserto è possibile camminare per chilometri senza trovare nulla. Poi all’improvviso, cambiano minuscole frazioni delle condizioni. Cambia la pendenza, anche solo di una frazione di grado, cambia la consistenza o la mineralogia del terreno in quanto leggermente più protetto dai raggi UV, ed ecco, all’improvviso, la vita è lì.

Sulla Terra, i rifugi dei microbi in ambienti estremi possono essere su scala micro-nanometrica, all’interno delle fessure nei cristalli. Questo espandere considerevolmente il potenziale alla base della ricerca della vita su  Marte. Se ci fosse vita, dovremmo considerare Marte come una biosfera. E come sulla Terra, la distribuzione e l’abbondanza dell’habitat microbico sarebbe direttamente collegata al luogo in cui in passato si è adattata. Le chiavi di quella dispersione dunque, si trovano nei primi tempi geologici del pianeta. Infatti, prima della transizione noachiana/hesperiana, i fiumi, gli oceani, il vento e le tempeste di polvere avrebbero portato la vita ovunque, in tutto il pianeta. Ancora oggi i meccanismi di dispersione esistono e collegano l’interno profondo di Marte al sottosuolo. Se quindi le condizioni superficiali si sono evolute drasticamente, divenendo ostili, non è detto che la vita non possa esistere ed essere migrata sottoterra. Anche la presenza di organismi pluricellulari non è da escludere.

Questo potrebbe implicare la presenza di fonti e processi nutritivi/energetici e catene alimentari attive, con processi che funzionano in un ambiente ecologico vitale, anche se estremo. Se è vero che esistono forme di vita di Marte, la domanda che si profila all’orizzonte è come le forme di vita abbiano raggiunto il pianeta: ha avuto origine sulla Terra e Marte in modo indipendente oppure ha avuto origine su Marte o sulla Terra e ha trovato la sua strada verso l’altro pianeta? O ancora, ha avuto origine lontano da questi pianeti ed è approdata al sistema solare come affermato nella teoria della panspermia?

Per ora non c’è una risposta unica a queste domande poiché mancano ancora gli elementi per poter far chiara luce su questa domanda fondamentale. Tipicamente la scienza è di per sé stessa scettica, anche se molte volte sono proprio le idee più balzane e visionarie a dare un giro di volta alla ruota della ricerca. Tuttavia, sebbene sia comprensibile che un approccio critico sia doveroso da parte degli scienziati, è altresì dannoso bollare come fantascienza tutto quello che corre parallelo alle previsioni ed alla convenzione. Spesso, proprio ciò che è strano o insolito, può nascondere una spiegazione altrettanto insolita, un fondo di verità o magari una diversa prospettiva da cui il problema non è stato ancora guardato. Sempre però, analizzato con metodo scientifico.

I paleolaghi marziani

Un lago è uno specchio d’acqua situato in un bacino completamente circondato da terra. La maggior parte dei laghi può essere trovata in aree con attività glaciale, vicino a montagne o valli. Queste formazioni geologiche sono solitamente riempite dall’acqua del fiume o dallo scioglimento dei ghiacciai. Nonostante il fatto che i laghi possano esistere per migliaia di anni, i geologi classificano tutti i laghi come temporanei perché a un certo punto durante la loro vita si riempiono di sedimenti e cessano di esistere.

Un paleolago è invece un lago che è esistito nel passato. La sua origine si può far risalire ad un’epoca in cui il clima e le condizioni idrologiche della sua zona erano diverse da quelle odierne. Questi tipi di laghi potrebbero essersi già prosciugati o potrebbero essere in procinto di prosciugarsi, o essere stati riempiti di sedimenti, e ora sono di dimensioni significativamente più piccole di quanto non fossero in passato. I paleolaghi vengono anche definiti ex laghi e laghi rimpiccioliti. A seconda di come questi laghi hanno perso l’acqua, varia anche la loro morfologia.

I paleolaghi, sulla Terra, sono di notevole importanza ecologica e geologica poiché il loro letto è spesso pieno di preziosi fossili. Inoltre, i geologi possono ottenere informazioni sui cambiamenti idrologici sperimentati in una particolare area durante la vita del lago, compresi eventuali cambiamenti avvenuti durante la preistoria. I siti dei paleolaghi sono spesso ricchi di giacimenti di petrolio, gas e carbone, che si trovano all’interno delle rocce che lì hanno dimora.

Su Marte si conoscono centinaia di antichi bacini lacustri grazie al telerilevamento orbitale. Essi rappresentano delle oasi in cui le interazioni fra idrosfera, atmosfera e litosfera offrono delle capsule del tempo che conservano un grande potenziale astrobiologico. Questi bacini paleolacustri ed i depositi lacustri ad essi associati potrebbero infatti conservare prove di biogenesi su Marte e la loro geologia, mineralogia e geochimica pongono forti vincoli al clima del passato.

La maggior parte dei paleolaghi marziani risalgono al periodo Noachiano, ovvero a più di 3.7 miliardi di anni fa e probabilmente la presenza di acqua in essi durò poco più di 100 anni, soltanto una piccola frazione dei 400 milioni di anni che copre il periodo Noachiano. Ci sono altri paleolaghi che invece si sono generati durante l’Esperiano, fra 3 e 3.7 miliardi di anni fa.

Quello che distingue i depositi lacustri noachiani è che contengono minerali argillosi detritici ricchi di Ferro e Magnesio e carbonati artificiali Fe/Mg, solfati, silice, cloruri e minerali argillosi che potenzialmente preservano le caratteristiche dell’atmosfera e del clima antichi. I laghi marziani forniscono un enorme valore comparativo per ricostruire la geologia e la geobiologia delle acque interne sulla Terra arcaica.

Quindi? C’è vita?

Non è detto. Non sempre le biosignature che vengono rilevate dagli strumenti rappresentano tanto oro quanto luccicano. Spesso quello che sembra proprio essere la firma della presenza della vita si rivela essere un mero prodotto della fisica e della geologia del pianeta. Si parla in questo caso di “falso positivo”.

Qualsiasi processo abiotico che ad una analisi poco attenta potrebbe assomigliare ad un processo biologico o viene mascherato come tale, è da considerarsi come un potenziale falso positivo. A concorrere ad ingannare gli astrobiologi contribuiscono anche i falsi negativi. Essi sono, al contrario, l’assenza di indizi che potrebbero far pensare ad un pianeta biologicamente morto laddove invece non lo è. Questo accade quando le firme della vita non sono abbastanza prepotenti o quando, al contrario, gli strumenti non sono abbastanza sensibili. Ne sono un esempio le piccole comunità di micro-organismi, le forme di vita cripto-endolitiche (che vivono nascoste nelle rocce) o i fossili, tutte incapaci di generare segnali rilevabili dallo spazio ma comunque esistenti (o esistiti) sul pianeta. Questo porta a definire un punto importante sulla questione che sta alla base della ricerca della vita: indipendentemente dalla persistenza e dal livello della biofirma e dalla presenza o meno di falsi positivi, ogni misurazione ha bisogno di essere contestualizzata ed inquadrata nell’ambiente da cui essa proviene.

Sulla Terra, l’ossigeno è di provenienza biotica. Tuttavia, su pianeti freddi e asciutti con una atmosfera ricca di CO2 o su pianeti orbitanti attorno a stelle più piccole del sole e con alte dosi di radiazione basso-UV, si potrebbero formare spontaneamente quantità significative di ossigeno molecolare dovuto alla fotolisi di CO2 (la scissione della molecola di anidride carbonica ad opera della radiazione) e dalla ricombinazione di due singole molecole di ossigeno. L’accumulazione del prezioso elemento si può avere anche attraverso l’evaporazione dell’acqua in superficie dovuta al surriscaldamento del pianeta (causato dall’eccessiva vicinanza alla stella madre) e dalla successiva perdita di idrogeno atmosferico per fuga molecolare. Questo fenomeno può portare ad un accumulo di O2 che potrebbe mimare la presenza di organismi fotosintetici sulla superficie. Anche le molecole di N2O e di CH4 possono essere generate da processi abiotici su altri pianeti, nel secondo caso, per esempio, grazie al fenomeno della serpentinizzazione.

La serpentinizzazione è stata proposta si Marte come un’alternativa non biologica alla presenza di tracce di metano che sono state osservate. Il gas viene poi intrappolato in clatrati (gas idrati) nel sottosuolo e liberato poco a poco quando il terreno si scalda. Questo fenomeno non spiega tuttavia la variazione stagionale della concentrazione della molecola in atmosfera. Il clima del pianeta determina pertanto se una molecola può accumularsi in atmosfera ed in che quantità ed anche se essa possa essere indice di vita o soltanto un fenomeno fisico generato dalle condizioni al contorno.  Le biosignatures di superficie, a differenza di quelle atmosferiche, sono molto più affidabili in quanto hanno minori fonti di falsi positivi ma spesso più difficili da distinguere. Non esiste dunque una regola precisa su come determinare se una caratteristica fisica possa convalidare la presenza della vita su un pianeta ma bensì è indispensabile avere un quadro generale di tutte le possibili biosignatures contemporaneamente ad analizzarle scrupolosamente nel dettaglio.

Ad oggi non abbiamo ancora dati ambientali globali su una scala e una risoluzione che contano per capire la moderna abitabilità microbica su Marte. Tuttavia, le future missioni spaziali ci permetteranno di completare il puzzle che da anni ormai impegna gli astrobiologi di tutto il globo.

Ma, come diceva Edgar Allan Poe: “Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte”.

Sergio Erculiani

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