Quando l’Universo s’illuminò di nuovo

Stabilita con precisione la fine dell’epoca della reionizzazione

Rappresentazione schematica della visione della storia cosmica fornita dalla luce brillante di quasar lontani. (Carnegie Institution for Science / MPIA)

In un istante, circa 13,8 miliardi di anni fa, si formò il nostro Universo. Chiamiamo quell’evento Big Bang e pensiamo che tutto ciò che osserviamo sia scaturito da un punto piccolissimo ed estremamente caldo. Tutte le particelle si formarono nel volgere di pochi istanti e con esse i primi nuclei, principalmente Idrogeno, ma anche Elio e piccole quantità di Litio.

Le tappe dell’evoluzione cosmica

In quella prima fase la temperatura era talmente elevata che tutti gli atomi erano ionizzati e formavano un plasma molto denso. La densità era tale da rendere l’Universo opaco sino a quando, circa 380mila anni dopo il Big Bang, non si ridusse abbastanza da permettere ai fotoni di diffondersi liberamente. In quel momento l’Universo risplendeva di un’intensa radiazione ultravioletta che ancora possiamo osservare notevolmente “stirata” a maggiori lunghezze d’onda nelle microonde, per l’effetto Doppler dovuto all’espansione cosmica. Quell’emissione ci arriva da tutte le direzioni ed è chiamata Radiazione Cosmica di Fondo (CMB), la più antica radiazione osservabile.

La CMB rappresenta nel concreto la temperatura attuale dell’Universo, pari a 2,725 K, e in essa è stato possibile riconoscere gli embrioni delle strutture a grande scala che ora osserviamo nel Cosmo.

Dopo questa fase di splendore, il Cosmo ritornò nuovamente nel buio poiché, al crescere delle sue dimensioni, la temperatura si abbassò abbastanza da rendere neutro il gas ionizzato. A un certo punto nulla risplendeva più e fu così per un periodo che gli astronomi chiamano Era Oscura.

L’epoca della reionizzazione

L’Era Oscura, durata all’incirca 100 milioni di anni, rappresenta una fase cruciale dell’evoluzione cosmica poiché da essa emergeranno le prime gigantesche stelle (l’inafferrabile Popolazione III) e i mattoni delle grandi galassie attuali.

Quelle prime caldissime stelle ionizzarono nuovamente le nubi di gas e il giovane Universo divenne uno sfavillio di luci, tra cui il tipico rosso intenso dovuto alla riga H-alfa dell’Idrogeno ionizzato. L’Universo mutò radicalmente aspetto con la comparsa dei primi veri oggetti celesti. Gli astronomi chiamano questa fase Epoca della Reionizzazione. Quanto fosse durata non era ben noto, ma ora un gruppo di astronomi, guidato da Sarah Bosman del Max Planck Institute for Astronomy (MPIA) in Germania, ha stabilito che l’epoca della reionizzazione sia terminata circa 1,1 miliardi di anni dopo il Big Bang. I risultati dello studio sono stati presentati in un articolo su MNRAS.

Più lunga del previsto

Gli astronomi pensavano che la reionizzazione avesse avuto una durata più breve, sino a circa 13 miliardi di anni fa. Lo studio ha invece permesso di stabilire che tale fase sia stata più lunga, circa 200 milioni di anni in più. Questo vuol dire che una porzione di tale importante periodo cosmico potrà essere meglio osservabile con gli strumenti attuali e quelli futuri.

Questo aggiustamento della scala cosmica non è marginale e comporta importanti implicazioni su vari processi occorsi nel giovane Universo. Infatti, più tempo significa più generazioni di stelle massicce in grado di produrre i metalli che adesso osserviamo sia nelle stelle più antiche osservabili (Popolazione II) che in quelle recenti nel disco della Via Lattea (Popolazione I).

Quello proposto è, ovviamente, un approccio indiretto poiché le prime stelle non sono mai state compiutamente osservate. A “distanze cosmiche”, le stelle di Popolazione III sono state mancate dal Telescopio Spaziale Hubble e probabilmente saranno oggetti molto difficili anche per i futuri strumenti come l’Extremely Large Telescope (ELT) dell’ESO e il debuttante James Webb Space Telescope (JWST).

In cerca della firma dell’idrogeno

Il nuovo risultato risolve quindi un dibattito durato almeno due decenni e deriva dall’osservazione, attraverso lo spettrografo X-shooter dell’European Southern Observatory (ESO) montato all’UT3 del Very Large Telescope (VLT), delle “firme” dell’idrogeno neutro nello spettro di 67 quasar. Conoscere con precisione la tempistica della reionizzazione vincola la natura e la durata delle sorgenti ionizzanti presenti durante la sua durata.

Per studiare la reionizzazione possono essere usati vari metodi, ad esempio misurando l’emissione nel dominio radio dell’idrogeno gassoso neutro a 21 cm (1240 MHz), oppure analizzando la luce da forti sorgenti di fondo. Questo è quello che hanno fatto Bosman e colleghi, analizzando la luce proveniente da lontanissimi quasar. La luminosità di tali oggetti è principalmente riconducibile al gas caldo che vortica intorno a buchi neri supermassicci. Scomponendone la luce con osservazioni spettroscopiche, gli astronomi possono identificare specifiche righe di assorbimento dovute alle nubi di gas interposte tra il quasar e l’osservatore.

La luce dei quasar lontani dell’universo primordiale è passata attraverso il gas già parzialmente ionizzato dell’epoca della reionizzazione, disposto attorno alle prime galassie. L’idrogeno gassoso neutro tra le galassie produce le firme di assorbimento. (Reparto grafico MPIA)

La linea a 121,6 nm

Nello specifico, si è cercata la forte linea spettrale ultravioletta dell’idrogeno alla lunghezza d’onda di 121,6 nanometri, riconducibile al solo mezzo interstellare e non al quasar. A causa dell’espansione cosmica, tale riga si osserva a lunghezze d’onda maggiori e quella delle nubi osservate ricadono nella regione infrarossa dello spettro.

La qualità degli spettri utilizzati nella ricerca è eccellente ed è stata determinante per il successo dello studio. Nella luce dei 67 quasar si è potuto stimare il rapporto tra idrogeno neutro e ionizzato nonché il grado di assorbimento. Alla presenza di un’alta frazione di gas ionizzato, la riga a 121,6 nm non viene assorbita efficientemente. Questa era l’informazione cercata dal gruppo di astronomi da mettere in relazione con lo spostamento verso il rosso misurato, quindi distanza ed età cosmica. In altri termini, le variazioni misurate nel valore di trasmissione nella linea spostata verso il rosso, forniscono il tempo o la distanza in cui l’idrogeno gassoso è stato completamente ionizzato.

Dati a confronto e simulazioni

Detto così sembra facile perché nella realtà la cosa è ben più complicata. I dati devono essere calibrati e ripuliti dalle fonti di contaminazione. Il gas intergalattico è completamente ionizzato ma lungo i filamenti della “rete cosmica” che uniscono le galassie e gli ammassi è presente una rilevante quantità di idrogeno neutro. Questo idrogeno neutro lascia la sua impronta nella luce dei quasar distanti, perciò gli astronomi hanno dovuto discriminare l’assorbimento “locale” da quello prodotto dalle nubi distanti.

Per eseguire tali operazioni sono state utilizzate delle simulazioni da cui è emersa che la linea a 121,6 nm doveva apparire spostata verso il rosso di 5,3 volte al tempo della reionizzazione. A tale valore corrisponde un’età cosmica di 1,1 miliardi di anni dopo il Big Bang. A questa età i cambiamenti misurati nella luce dei quasar diventano incoerenti con quelle riconducibili al mezzo locale. Pertanto, quello è stato l’ultimo periodo in cui l’idrogeno neutro deve essere stato presente nello spazio intergalattico e successivamente è diventato ionizzato.

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Informazioni su Giuseppe Donatiello 353 Articoli
Nato nel 1967, astrofilo da sempre. Interessato a tutti gli aspetti dell'astronomia, ha maturato una predilezione per il deep-sky, in particolare verso i temi riguardanti il Gruppo Locale e l'Universo Locale. Partecipa allo studio dei flussi stellari in galassie simili alla Via Lattea mediante tecniche di deep-imaging. Ha scoperto sei galassie nane vicine: Donatiello I (2016), Donatiello II, III e IV nel sistema di NGC 253 (2020), Pisces VII (2020) e Pegasus V (2021) nel sistema di M31. Astrofotografo e autore di centinaia di articoli, alcuni con revisione paritaria.