Dei quasi 4400 esopianeti confermati, solo una piccola frazione ricade nella cosiddetta Zona Abitabile (ZA), la fascia orbitale in cui può esserci acqua liquida in superficie quando le condizioni di temperatura e pressione al suolo siano quelle giuste. La stessa definizione di ZA lascia intendere che non sia condizione sufficiente trovarsi al suo interno per classificare un pianeta roccioso come un ospitale gemello della Terra. Che le cose stiano così, lo prova Marte che, pur essendo al margine esterno della ZA, si presenta oggi come un mondo arido e freddo, benché in passato sembri aver avuto un clima più mite, con acqua liquida che vi scorreva in superficie.
Che cosa favorisce l’abitabilità e perché alcuni pianeti diventeranno accoglienti, mentre altri rimarranno sterili pur essendosi formati in condizioni molto simili?
A queste domande prova a rispondere un team di ricercatori dell’University of British Columbia, indagando l’influenza dell’evoluzione geologica su quella biologica di un esopianeta, con particolare attenzione alla presenza e dimensioni di un nucleo metallico. Altri studi hanno già evidenziato come la presenza di attività endogena e la tettonica a placche favorisca lo scambio di nutrienti tra mari e continenti, oppure la funzione rivestita da un campo magnetico planetario attivo come efficace scudo dalle dannose radiazioni stellari e cosmiche.
“I nostri risultati mostrano che se conosciamo la quantità di ferro presente nel mantello di un pianeta, possiamo prevedere quanto sarà spessa la sua crosta e, a sua volta, se l’acqua liquida e un’atmosfera possono essere presenti“, spiega Brendan Dyck, primo autore dello studio. “È un modo più preciso per identificare potenziali nuovi mondi simili alla Terra piuttosto che fare affidamento sulla loro posizione nella sola Zona Abitabile“.
La ricerca, basata su modelli di sistemi planetari, mostra come i pianeti rocciosi abbiano in comune lo stesso rapporto tra silicati e ferro e che la percentuale di quest’ultimo sia una specie di firma della stella madre. A fare la differenza è quanto di quel ferro sia stato concentrato in un nucleo, oppure sia rimasto diffuso nel mantello. Questa circostanza influenza in modo significativo l’evoluzione geologica del pianeta, giacché i mondi con nucleo grande formeranno croste più sottili, mentre quelli con nucleo più piccolo produrranno croste più spesse e ricche di ferro (come per Marte). Lo spessore della crosta planetaria decreterà se il pianeta possa supportare la tettonica a placche e quanta atmosfera e acqua possano essere presenti, ingredienti chiave per la vita così come la conosciamo.
“Anche se l’orbita di un pianeta può trovarsi all’interno della Zona Abitabile, la sua storia di formazione iniziale potrebbe alla fine renderlo abitabile“, continua Dyck. L’evoluzione geologica di un pianeta dipende da vari fattori, alcuni molto fortuiti. Ad esempio, è sempre più chiaro il ruolo avuto dal grande impatto all’origine della Luna per innescare la differenziazione interna della Terra e l’avvio della dinamo all’origine del campo magnetico. Non meno importante è il ruolo stabilizzatore per rotazione e clima indotto dal nostro satellite. Trovare tutti insieme questi fattori è difficile e il nostro pianeta potrebbe essere di tipo davvero molto raro.
Lo James Webb Space Telescope (JWST) sarà in grado di studiare le proprietà chimiche dei sistemi extrasolari vicini in ZA e sarà capace di misurare la quantità di ferro presente nelle loro rocce superficiali. Queste informazioni permetteranno di caratterizzare e capire se quei mondi manifestino o no attività endogena, offrendo di conseguenza indizi sulla maggiore probabilità di ospitare forme viventi.