Alla ricerca di alieni poco green

L’INQUINAMENTO ATMOSFERICO POTREBBE TRADIRE UNA CIVILTÀ EXTRATERRESTRE

Ammesso che esistano, non ci sono ragioni per ritenere che gli alieni siano migliori di noi. È quindi probabile che nel corso del loro sviluppo abbiano commesso i nostri stessi errori nei confronti dell’ambiente. Una delle maggiori espressioni dello sviluppo tecnologico è lo sfruttamento delle risorse planetarie e l’inevitabile produzione di sostanze inquinanti.

Uno studio della Nasa, con primo autore Ravi Kopparapu, ha considerato alcuni degli inquinanti più comuni, trovando che il biossido di azoto è quasi esclusivamente prodotto in attività industriali e in minor misura da fonti naturali come vulcani, fulmini e attività biologica. Questo gas è dunque un ottimo “tecnomarcatore”: la sua presenza nell’atmosfera di un pianeta di tipo terrestre sarebbe un forte indizio dell’esistenza di una civiltà aliena. Il biossido di azoto è l’inquinante transitorio di origine antropica dominate nella bassa atmosfera, tra circa 10 e 15 km, tant’è che il suo tenore è calato durante la pandemia per via della riduzione di alcune attività industriali. La sua dipendenza dalle attività umane ne fa un ottimo rivelatore della nostra tecnologica e, presumibilmente, anche di una extraterrestre.

Ormai conosciamo più di 4200 pianeti, alcuni di taglia terrestre posti nelle zone abitabili delle rispettive stelle ospiti, con qualcuno che potrebbe aver sviluppato le condizioni adatte per ospitare forme viventi. La presenza di viventi (non necessariamente evoluti) può essere discriminata rivelando nelle atmosfere i biomarcatori, cioè molecole riconducibili esclusivamente ad attività biologica, almeno come la conosciamo. Trovare forti biomarcatori insieme a forti tecnomarcatori sarebbe una prova quasi definitiva della presenza di una civiltà allo stadio industriale.

Queste “firme” chimiche vanno cercate negli spettri di tali mondi quando passano davanti alle loro stelle. Registrando lo spettro fuori e durante un transito ed eseguendo una sottrazione, si può estrarre dai dati il contributo dell’atmosfera planetaria. Con i futuri strumenti si potranno poi indagare le atmosfere degli esopianeti direttamente, per scoprire che cosa contengano.

Una possibile indicazione di vita potrebbe essere una combinazione nell’atmosfera di gas come ossigeno e metano, ma la concomitante presenza di ossido di azoto tradirebbe processi industriali in corso.

È la prima volta che uno studio attribuisce al biossido di azoto il ruolo di tecnomarcatore, giacché altri studi avevano considerato i clorofluorocarburi, responsabili della distruzione dell’ozono e potenti gas serra. Questi gas non sono prodotti naturali e trovarne la presenza nello spettro di un esopianeta sarebbe la prova di un’avanzata civiltà tecnologica. Ma il biossido di azoto sarebbe notevolmente più comune come sottoprodotto di vari processi di combustione.

Nel loro studio, i ricercatori hanno modellato l’intensità del segnale rispetto alle potenziali attività e abbondanze, determinando quanto la firma spettrale sarebbe rivelabile, anche se con molte difficoltà. Il biossido d’azoto assorbe specifiche lunghezze d’onda della luce visibile, perciò saranno utili strumenti ottimizzati per tali bande spettrali.

Si è potuto così stabile che un pianeta come la Terra, abitato da una civiltà inquinante come la nostra, potrebbe essere scoperto entro una trentina di anni luce, raccogliendo segnale per circa 400 ore. Un tempo lunghissimo per gli standard di accesso a uno strumento professionale, ma comunque realizzabile, come già avvenuto con le esposizioni ultra-profonde eseguite dal telescopio spaziale Hubble nelle famose Deep Field.

Le stelle meno calde, producendo minore radiazione ultravioletta in grado di rompere i legami molecolari del biossido di azoto, sarebbero ambienti più favorevoli alla rilevazione, oltre a essere in numero enormemente maggiore.

C’è la possibilità che l’eventuale rivelazione sia un falso positivo, quindi uno dei compiti futuri sarà imparare a separare le fonti naturali da quelle artificiali, nonché distinguere le sorgenti di disturbo, come alcuni tipi di nubi in grado di produrre segnali analoghi.

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Informazioni su Giuseppe Donatiello 351 Articoli
Nato nel 1967, astrofilo da sempre. Interessato a tutti gli aspetti dell'astronomia, ha maturato una predilezione per il deep-sky, in particolare verso i temi riguardanti il Gruppo Locale e l'Universo Locale. Partecipa allo studio dei flussi stellari in galassie simili alla Via Lattea mediante tecniche di deep-imaging. Ha scoperto sei galassie nane vicine: Donatiello I (2016), Donatiello II, III e IV nel sistema di NGC 253 (2020), Pisces VII (2020) e Pegasus V (2021) nel sistema di M31. Astrofotografo e autore di centinaia di articoli, alcuni con revisione paritaria.