50 anni fa, “lucky Alan” decollava sull’Apollo 14

L'autore del primo volo suborbitale statunitense, portato a termine il 5 maggio del 1961.

shepard
Immagine da "From the Earth to the Moon"
Nei giorni dell’Apollo 14, esattamente cinquant’anni fa, lo chiamavano “lucky Alan” (Alan il fortunato). D’altronde era stato il primo americano nello spazio, era diventato un imprenditore ricco, conosceva tutti gli uomini più importanti degli Stati Uniti, e ora? Ora si apprestava a comandare una missione lunare! Più lucky di così… In realtà le fortune di Alan B. Shepard jr, classe 1923, nato a Derry, nel New Hampshire, da un generale dell’esercito, erano diverse. E nel suo caso sarebbe stata davvero valida la frase “Non tutti i mali vengono per nuocere”. Dopo il primo volo suborbitale statunitense, portato a termine il 5 maggio del 1961, Shepard sognava imprese spaziali ben più durature dei 15 minuti del suo lancio con la piccola capsula Freedom 7. Invece, due anni dopo, si ritrovò dietro una scrivania, come capo dell’Ufficio Astronauti a Houston. Non avrebbe potuto volare più, a causa di un malanno all’orecchio, la sindrome di Ménière. Messo ko da ronzii, nausee e vertigini improvvise, fu costretto a guardare i suoi colleghi mentre si addestravano e partivano per missioni sempre più impegnative e spettacolari, quelle dei programmi Gemini e poi Apollo. In qualche modo, però, la malattia, causa di una frustrazione notevole per una astronauta, divenne il motore di un’aggressività imprenditoriale marcata e declinata in investimenti immobiliari, azionari e addirittura petroliferi. Non solo: non è da escludere sia stata lei, la sindrome di Meniere, a salvargli la vita. I voli previsti delle Mercury erano sette, uno per ogni astronauta del primo gruppo Nasa. Prima di Shepard, però, anche Deke Slayton fu rimosso dal servizio attivo per un lieve problema cardiaco. Le missioni diventarono quindi sei, da quella di John Glenn a quella di Gordon Cooper. Shepard si batté giorno dopo giorno per ottenere il settimo seggiolino Mercury: una missione in orbita di 70 ore (il record era di Cooper con 34). Quando la sua insistenza arrivò ai vertici dell’ente la risposta fu sorprendente: “Ci dispiace Shepard”, gli disse il capo della Nasa, James Webb, “non ha senso un altro volo Mercury ora che siamo proiettati verso le biposto Gemini”. “Le promettiamo il comando della prima Gemini con equipaggio”. La promessa fu mantenuta. Alan iniziò ad addestrarsi per la missione Gemini 3 nel 1963. In un primo tempo gli affiancarono come secondo pilota Frank Borman, che però poi accettò (e di buon grado) di diventare il primo astronauta del “Gruppo 2” e primo “non Mercury” a comandare un volo Gemini, la missione 7; Shepard venne allora affiancato a Thomas Stafford. A quel punto, però, i problemi all’orecchio tornarono a manifestarsi. E peggio di prima. Ciò nonostante, tutti erano convinti che “Al” fosse l’uomo giusto al posto giusto. E gli promisero che, nel caso fosse guarito e rientrato nei ranghi, lo avrebbero assegnato a un equipaggio. Al suo posto, quello della Gemini 3, venne messo un altro degli eroi del Mercury, Virgil Grissom. Lo stesso astronauta che poi sarebbe stato assegnato al comando della prima missione Apollo. “Avrebbe potuto essere la missione di Alan” – confidò una volta Slayton, l’uomo che decideva gli equipaggi. Una sottolineatura non banale: Apollo 1 fu la missione mai partita, quella dell’incendio che uccise Grissom, Ed White e Roger Chaffee sulla rampa di Cape Canaveral nel 1967, Nel frattempo Tom Stafford, che vedeva Shepard sempre più frustrato per l’esclusione dal programma, prese a cuore il problema all’orecchio: suggerì all’amico uno specialista di Los Angeles: “Dai Alan, almeno senti cosa ti dice … prova …” – disse a Shepard, che frequentava una chiesa la cui religione è contraria agli interventi chirurgici. Sotto falso nome (il greco Victor Poulos), Shepard si sottopose all’intervento, perfettamente riuscito. A quel punto, nel 1968, tornò dai suoi superiori ricordando loro la promessa di sei anni prima. La risposta? Assegnato all’Apollo 13, con il ruolo di comandante. La cosa destò qualche rimostranza all’interno del corpo astronautico e fra i responsabili della Nasa: “Lanciare Shepard dopo sei anni di inattività, con un passato clinico non rassicurante e solo un volo suborbitale? Vi sembra logico?”. Per Slayton la risposta fu comunque sì: spinse molto per assegnare il volo all’amico. In un primo tempo propose a James Mc Divitt di affiancarlo come pilota del modulo lunare: “Io non vado a fare la balia di Shepard” replicò quest’ultimo. Quindi si decise a dare più tempo a Shepard per addestrarsi, mettendolo al comando della missione successiva, l’Apollo 14. Una scelta che mai sarebbe stata fatta se James Lovell non avesse accettato di passare dal comando di Apollo 14 a quello della missione precedente. E un’altra conferma di quanto Alan fosse lucky, considerato come andò Apollo 13. L’incidente ad Apollo 13 fece ulteriormente ritardare la partenza di Shepard e dei suoi compagni Edgar Mitchell e Stuart Roosa. Previsto per l’ottobre del 1970, il lancio di Apollo 14 fu riprogrammato per il gennaio successivo, in modo da apportare al modulo di servizio tutte le modiche del post incidente. Così il 31 gennaio 1971, Alan Shepard partì finalmente per la Luna. 40 minuti di ritardo al lancio per un temporale su Cape Canaveral non gli impedirono di arrivare puntuale sul suolo selenico, alle 10:16 (ora italiana) del 5 febbraio. Pilotò il Lem Antares nel primo allunaggio in una zona non pianeggiante, l’altopiano di Fra Mauro. “Ok Al è sulla superficie” – comunicò in prima persona scendendo dalla scaletta del modulo lunare – “Ed, è stata una strada lunga, ma siamo qui …” La missione di Shepard e dei suoi compagni resta nella storia come uno dei sei allunaggi del Programma Apollo. Forse persino un po’ dimenticata e considerata di “transizione” tra i primi pionieristici voli e le permanenze più lunghe, spettacolari e ricche di risultati delle missioni successive. Eppure fu proprio grazie al successo della missione 14 se le altre vennero lanciate. Due fallimenti successivi avrebbero comportato la chiusura anticipata del programma. In qualche modo la testardaggine di Alan raggiunse due obbiettivi: uno personale (realizzare il suo sogno di andare sulla Luna) e l’altro storico, salvare Apollo. A quel punto, dopo un paio di passeggiate su un altro mondo e persino una leggendaria partita a golf extraterrestre, Shepard poteva tornare a Houston a dirigere il corpo astronauti. E negli affari, dimostrando di essere sempre più lucky.

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